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Storytelling: LA CITTA’ FUTURA

Storytelling: LA CITTA’ FUTURA

Manuel e Tancredi, due vite e un’armonica
Era un periodo in cui non mi importava niente, niente ad eccezione della musica. L’armonica era diventata la compagna fedele delle mie giornate, era lei che dava attimi di pace al caos dei miei pensieri. Era stata anche la storia più stabile che mai avessi avuto. Ornella me lo diceva sempre: “la tua armonica è la tua vita, la tua storia con lei non finirà. Con noi, invece, è già finito tutto da un pezzo” – aggiunse l’ultima volta, prima di prendere le valigie e farmi salutare i ragazzi. Non li rividi più. D’allora sono passati quattro anni. Quattro anni a vivere in questa casa diventata troppo grande, troppo silenziosa, troppo vuota. Una volta era una casa viva, Ornella raccoglieva ogni giorno dei fiori dal nostro piccolo giardino, profumati perché, per essere belli, i fiori devono profumare. “Li devi sentire, e poi vedere”, diceva. La mattina preparava sempre le ferratelle, come le chiamava lei che aveva la nonna lucana, io però continuavo a chiamarli waffles, irritandola non poco. Il loro profumo riempiva la casa, i bambini la mattina si precipitavano in cucina sentendone il buono odore e dovevo scansarmi prima di essere travolto dal loro arrivo. Cecilia li mangiava senza aggiungere niente, Francesco li gradiva con un po’ di marmellata di fragole. Io ne rubavo uno a Cecilia, uno a Francesco e poi li univo a mo’ di sandwich e vi affondavo i miei denti. Ogni mattina era sempre la stessa storia e loro si divertivano molto a ostacolarmi o a cercare di riprenderseli ma, per loro sfortuna, ero troppo veloce. Cecilia, l’ho chiamata così per il quadro di “Santa Cecilia” del 1516 di Raffaello, che si trova alla Pinacoteca Nazionale di Bologna; Il nome Francesco l’ha scelto Ornella, per sua fortuna. Fosse dipesa da me la scelta del suo nome, gli sarebbe toccato qualcosa come Gioseffo o Boezio. Qualche anno fa ero fissato con i primi musicologi. Cecilia non è poi così malvagio, spero le piaccia. In verità non lo so, non gliel’ho mai chiesto. Non mi sembrava un argomento interessante per una bambina di cinque anni, così non le ho mai raccontato di quel quadro. Andava ancora a scuola materna e già lo abbreviavano tutti in Cecy. Cecy di qua, Cecy di là. Non mi sorprenderebbe se oggi non mangiasse più legumi.
Da quando sono solo la casa è sporca, cerco di riordinarla e di pulire come posso per non farla diventare una cloaca. Spero sempre che un giorno tornino e non vorrei vedessero pile di cartoni di pizza, bottiglie a terra o un angolo di lattine di birra che ho creato e rimosso con fatica per ben due volte. La verità è che non ci riesco più a stare in queste mura, appena posso vado al parco vicino casa; staziono lì da troppo tempo ormai, a volte mi è capitato persino di addormentarmi sotto il mio ulivo preferito. Quando piove mi siedo sul retro degli uffici della struttura situata nel parco. Fisso la pioggia, butto giù qualche goccetto e mi faccio la mia sonatina. D’autunno o d’inverno, quando le giornate sono piovose, ho persino un folto pubblico canino ma il freddo mi costringe a bere di più e per quanto posso, cerco di riguardarmi. Così la stagione che preferisco è la primavera. I colori, le tinte brillanti e le sfumature delicate dei fiori che sbocciano, non mi disturba niente della primavera. L’estate è la più complicata delle stagioni: se fa troppo caldo ho la pressione bassa e le zanzare mi divorano ma il parco è tutto per me. Se non c’è un caldo eccessivo, sono tante le attività che riempiono il parco e allora cerco di ricavarmi un angolino di pace, ma diventa difficile trovarne uno stabile. In realtà non ho una grande voglia di stabilità. Quando le cose restano provvisorie pensi che il tempo non passi e che il cambiamento non sia per sempre. Ho superato in questo modo questi quattro anni da ‘single’, mi sembrava così di preservare la mia stabilità psichica, ma il tempo non è mai stabile e a volte un tifone ci può travolgere, anche d’estate.
Un caldo pomeriggio di luglio l’area giochi del parco era piena di bambini scalmanati, vedevo gli addetti del parco trafficare con casse, cavi, ma cosa più preoccupante, trasportare sedie verso l’area del bar. Io mi posizionai sotto il mio ulivo preferito, gli avevo dato un nome: Ulisse. Cecilia dava sempre i nomi alle piante, diceva che se non hanno un nome non ci puoi parlare e io con Ulisse ci parlavo. Era più che una pianta per me, più di un angolo di ristoro, più di un compagno di bevute. I suoi rami mi facevano ombra, il suo tronco mi faceva da schienale, i miei piedi scalzi condividevano con le sue radici quel terreno; in un certo senso gli rubavo il nutrimento e lui lo condivideva con me, volente o nolente. Io cercavo di ‘ricambiare la cortesia’: scacciavo le formiche che gli facevano il solletico e la mia presenza impediva al teppista di turno di incidere con un coltellino la sua corteccia. Ma restava un albero, una pianta e, sebbene per me fosse molto di più, lo chiamai Ulisse per ricordarmi che anche lui, come me, non era Nessuno. Se in quel periodo mi fossi sentito felice o ottimista mi sarei potuto cambiare il nome in Penelope perché aspettavo con pazienza il mio incontro con Ulisse: alle volte il pessimismo è una fortuna!
In questi pomeriggi d’estate il mio repertorio era piuttosto monotono, iniziavo e, in verità, ripetevo continuamente il brano ‘Estate’ di Bruno Martino. Era il mio leit motiv degli ultimi anni, lo avevo sempre in testa e terminavo con una melodia che ho composto anni fa. Non l’ho mai fatta ascoltare a nessuno. In realtà le sere d’estate le cicale intonavano la loro perpetua melodia e io ricambiavo con quella che avevo composto. Le cicale sono insetti curiosi che ho imparato ad apprezzare. Sono il segnale che l’estate è iniziata. La loro musica inaugura la stagione e mi sento di essere un invitato di riguardo. Sul finire dell’estate sentono che la loro ‘bella stagione’ è quasi finita e friniscono sempre più lentamente. Mentre mi portavo l’armonica alla bocca, fui distratto dalle prove audio e i rumori delle casse, causati dalla vicinanza del microfono, erano insopportabili ma mi riportarono alla realtà o almeno mi costrinsero ad osservare la realtà che avevo davanti agli occhi. C’era un gruppo di bambini allegri e pieni di entusiasmo che giocava, le mamme stavano all’ombra ferme a chiacchierare. Erano insopportabili, già lo sapevo. I loro tailleur di lino: grigio per una, marrone per le altre due, me lo dicevano. Una aveva i capelli rossi, una era bionda e una aveva i capelli neri corvino, sembravano tre streghe. I loro zigomi sporgenti, gli occhiali da sole a gatto, le loro borsette Luis Vitton e Alviero Martini la dicevano lunga, sembravano delle caricature moderne della signorina Rottermeier, mancavano solo le parigine ai loro piedi, mancanza forse causata dal fatto che era estate. Non che avessero fatto una scelta più gradevole: la donna dal tailleur grigio aveva delle d’Orsay nere, l’altra dell’Office shoes beige e l’ultima dei sabot argentati da fare venire la pelle d’oca. Di scarpe ne so qualcosa, a casa io e Ornella avevamo una cabina armadio molto spaziosa anche se, a detta sua, non era grande. “Sette metri quadri – le rispondevo sempre – cosa vuoi di più?” Sette metri quadri di cui a me toccavano due metri e a lei i restanti cinque. La metà del suo spazio era occupato appunto da scarpe, le sistemava per tipo e ne aveva una vera collezione. Quella cabina armadio ormai colleziona solo polvere da quando non c’è più Cecilia. Io invece mi vesto sempre allo stesso modo, oggi più che mai. La mia mise standard prevede jeans scuri, camicia militare nelle varianti verde e nera, berretto verde che uso per tenere a bada la mia chioma, ormai con qualche capello grigio. Una volta usavo anche qualcosa di più colorato. Al mio compleanno, che cade di marzo, l’ultimo con loro, Ornella e i ragazzi mi hanno regalato una serie di polo colorate. Cecilia e Francesco hanno fatto un bel bigliettino con su scritto ”Paint your life”, era un’espressione che Cecilia adorava, era anche il titolo di uno dei suoi programmi preferiti, lo vedeva sempre con la mamma e poi facevano qualche lavoretto di bricolage insieme; anche a Francesco piaceva molto. Ai colori non sono più abituato e quasi mi disturbano ora, quelle polo restano nei cassetti a prendere l’odore di muffa.
Poco più lontano dalle tre mamme ce n’era una che cercava di parlare con un’amica ma non ci riusciva, dava la caccia al proprio figlio, un tipo buffo, avrà avuto sei anni. Appena misero uno di quei motivetti estivi che vanno per la maggiore, di quelle insopportabili melodie latino americane, il ragazzino si tappò le orecchie gridando: “Non mi piace, non mi piace!” E scostò le mani solo per picchiare le casse. Era una scena buffa, avrei voluto complimentarmi con lui ma preferii restare a suonare abbracciato da Ulisse. E poi, dalla faccia provata della madre, che lo rincorreva mentre il bambino scappava da una parte all’altra con le orecchie tappate, capii che qualcosa non andava: quel gesto, che mi sembrava così spontaneo e ribelle come solo un bambino poteva fare, assunse un altro senso e non mi fece più sorridere. Le tre Rottermeier fecero una smorfia che le rese ancora più brutte e richiamarono i propri figli per raccomandar loro di non avvicinarsi a quel bambino. Era una giornata strana, non ero abituato a vedere così tanti bambini, mi ricordavano i miei due angioletti, chissà dove si trovavano in quel momento. Chiusi gli occhi e suonai una delle mie canzoni preferite, Aint ’No Sunshine. Esistono diverse versioni di questa canzone ma io preferisco quella di Bill Whiters. Ogni volta che la suono penso ad Ornella e ai ragazzi. “Non c’è sole quando lei non c’è, lei è via da troppo tempo. Mi chiedo dove sia questa volta, mi chiedo se resterà via. Non c’è il sole quando lei non c’è e questa casa non è una casa ogni volta che va via. Non c’è sole quando lei non c’è, solo il buio ogni giorno. Non c’è sole quando lei non c’è“. Ero a metà della canzone quando mi resi conto di essere osservato. Mi ritrovai il bambino che fino a poco prima scappava dalla mamma e da quel frastuono. Ora era di fronte a me e mi stava fissando. Io continuai a suonare e lui continuava ad avvicinarsi. Il mio sguardo gli sfuggiva per qualche strana ragione finché non protese la sua mano sinistra verso la mia armonica. Mi fermai e fu allora che i nostri sguardi si incrociarono. Aveva degli occhi enormi, castani, dalle lunghe ciglia, una fisionomia delicata e i capelli castani corti ma tagliati male, con qualche ciocca più lunga. Era magro, abbronzato. Mi fissava senza espressione ma poi sorrise e disse: “Musica”. Capii che era un bambino diverso. Mi chiese: “Ciao, come ti chiami?”. “Manuel”, risposi. E ripeté il mio nome un paio di volte con la sua fievole vocina. Io sono Tancredi, disse senza guardarmi, come se stesse recitando una battuta. Poi mi alzò il braccio avvicinando l’armonica alla mia bocca. Voleva che suonassi. Gli dissi: “Suono l’armonica?” E lui mi fece l’eco ripetendo la mia frase con la stessa intonazione. Ripeté più volte la parola armonica. Continuai a suonare. Lui sorrise, e io mi persi nella musica chiudendo gli occhi. Quando li riaprì lo vidi saltare, ridere, muovere le mani in un movimento che non sarei mai stato capace di imitare e poi serio ma appagato, come se stesse cogliendo quello che la melodia era per me, rimase ad ascoltare in silenzio. Non so descrivere la sensazione che ho provato ma è come se stessi suonando per qualcuno o che qualcuno sentisse quello che stavo provando. Si mise a correre verso la madre, rubò una sedia dal palco, era grossa per la sua corporatura ma fece avanti e indietro correndo finché non mise due sedie una di fianco all’altra davanti a me. Poi ritornò dalla mamma e la tirò dalla mano. La madre non capiva ma lui le gridò “Armonica, armonica”, con tutte le sue forze la spinse nella mia direzione, gridando in sequenza le parole “Manuel armonica, andiamo!”. La madre lo assecondò timorosa ma interessata. Era a disagio. Era passata una mezz’oretta da quando erano arrivati ed era già stanca. Si sentiva osservata, rifiutata, compatita. Avvertivo il suo disagio. Non so se come madre verso un figlio particolare o per il contesto tutto o per entrambe le cose. Il bambino la portò davanti a me, la fece sedere e Le disse: “Manuel musica silenzio”. Si sedette accanto a lei in silenzio, tenendole la mano. Mi sentii in dovere di suonare, avevo il miglior pubblico che potessi desiderare e così continuai ad oltranza. La madre pianse; più tardi mi disse che era la prima volta che suo figlio, Tancredi, si sedeva per più di dieci minuti stando in silenzio, che era la prima volta che rivolgeva interesse verso qualcuno, la prima volta che chiedeva un nome e diceva il suo, benché gli fosse stato insegnato ripetutamente come ci si presenta. Quando diventammo amici la madre mi spiegò che aveva scelto questo nome non per l’epico personaggio della Gerusalemme Liberata, né per il più prosaico portiere della Roma, ma per quello più romantico del principe de “Il Gattopardo”. Aveva sognato un figlio bello come Alain Delon, che nell’omonimo film interpretava il bel principe, ed era stata accontentata. Sulle altre doti richieste ci stavano ancora lavorando: lei, Tancredi, le terapiste, le maestre, i dottori. Aveva chiesto tante cose per suo figlio sognandolo mentre lo aspettava, la bellezza, la gentilezza, la dolcezza, l’intelligenza, aveva dimenticato la normalità. Nessuno chiede la normalità quando si desidera un figlio, tutti la danno per scontata.
Tancredi si alzò, la madre lo imitò ma lui cercò di farla sedere di nuovo. Decise di assecondarlo anche questa volta. Il bambino prese un’altra sedia e andò verso la folla di genitori nell’area giochi, decise di prendere per mano la signora con cui la madre stava parlando prima e la avvicinò alla mamma. Le due donne sorrisero complici e mi ascoltarono con tranquillità. Ci raggiunse anche una bambina che si sedette in braccio alla mamma che Tancredi aveva spinto fin lì. A vedere la bambina, si fecero avanti anche altre amichette, poi altri bambini che presero la sedia e si misero in circolo, poi ancora le madri di questi bambini e infine anche le tre Rottermeier che avevo pensato fossero delle streghe. Fu proprio Tancredi a trascinarne una per mano, quasi commuovendola. Lei prese una sedia, si tolse le sue d’Orsay per camminare nel prato e raggiunse con le sue amiche il resto del pubblico che si ero formato. Sul palco era tutto pronto per una serata all’insegna del ballo ma il pubblico si era spostato, era tutto per me. Era in riverente silenzio, compiaciuto ed ammirato. Non avrei mai pensato potesse esserci una certa sintonia tra me e quelle persone, come non lo avrebbe mai pensato la mamma di Tancredi. Tancredi è autistico e l’autismo è una malattia che agisce sul linguaggio, eppure sembrava stessimo parlando tutti la stessa lingua: loro con l’ascolto, io con la musica della mia armonica. Persone così diverse eppure così vicine. La musica della vita è questo: “Harmonia est discordia concors, L’armonia è una discordia concorde”. Quando finì, tutti applaudirono e io arrossì come non mai, non ero più abituato a suonare per qualcuno. Non ero neanche più abituato a parlare con qualcuno. Da quando ero solo avevo rinunciato a fare il professore di musica e avevo deciso di lavorare come correttore di spartiti perchè questo mi permetteva di non vedere ogni giorno persone, non mi obbligava a doverci parlare. Una mamma si avvicinò a me chiedendogli se dessi delle lezioni. Quando tornai a casa con la voglia di radermi e di fare ordine, lavai quelle polo colorate e il giorno dopo ne misi una per andare al parco. Tancredi era lì con la mamma e io suonai con loro. D’allora è così, quasi tutti i pomeriggi passa dal parco dopo la terapia ma solo se si è impegnato, per lui la mia musica è motivante. Da qualche tempo porta anche una pianola che sto cercando di insegnargli a suonare. A fine giornata ripeto il mio motivo ai presenti, ormai ho un piccolo e vero pubblico che non si stanca di ascoltarmi. Mi sono anche mosso per cercare la mia famiglia, non so se ci riuscirò, ma voglio provarci. E quando li troverò mi vedranno al parco a suonare, col mio nuovo amico e con le loro polo colorate. Sarò io, allora, a chieder loro di aggiungere colore alla mia vita, che già da un paio di mesi non è più così in bianco e nero.